Alcuni brani del testo di  Georges Gusdorf

Gusdorf

La geostoria antica

 

 

1.Situazione e origini della storiografia greca

Il senso della conoscenza storica e geografica presso gli Antichi si può comprendere in riferimento al sistema dell'intelligibilità antropocosmica. Non sembra che queste forme del sapere abbiano beneficiato di un interesse sufficiente da parte dei filologi. Lo studio della geografia antica è rimasto appannaggio di pochi specialisti che, spesso, invece di tentare di ricostruire la rappresentazione del mondo peculiare degli intelletti di un tempo, si accontentano di compilare un inventario delle conoscenze esatte. Ora, il mondo antico non è costituito solo dall'accumulazione di tutti i luoghi conosciuti dagli Antichi; è innanzitutto la configurazione d'insieme di uno spazio mentale, che si presenta come uno spazio vitale. Gli storici della geografia disdegnano, la maggior parte delle volte, questo spazio vitale e proiettano i suoi elementi nel nostro spazio, considerato come lo spazio vero.
Quanto alla storia degli Antichi, essa ha dato luogo a numerosi e approfonditi studi. Sfortunatamente, anche in questo caso, un errore di prospettiva sembra aver spesso fuorviato la ricerca. I testi degli storici sono considerati come monumenti letterari; studiati da specialisti della letteratura, sono giudicati in funzione del loro valore estetico. Erodoto, Tucidide, Tito Livio, Tacito, grandi scrittori, sono salvati per il valore stilistico. Gli scrittori minori passano per storici minori; buona parte di loro sono peraltro scomparsi più o meno completamente. L'umanesimo classico ha selezionato brani scelti dalle opere principali: ritratti e racconti, discorsi che rivestono un ruolo essenziale nella messinscena pedagogica dell'Antichità ad uso delle scuole. La canonizzazione dei testi finisce col mascherare il senso profondo della rappresentazione storica agli occhi degli antichi stessi. Gli autori  più significativi non sono quelli che usano la lingua più pura: nessuno oserebbe sostenere oggi che gli storici più eruditi si trovano all'Académie Française. È assurdo considerare, in fatto di storici antichi, solo quelli che vissero nelle epoche consacrate dal classicismo: il secolo di Pericle e il secolo di Augusto, come se al di fuori di questi monumenti privilegiati il pensiero storico non fosse esistito. Polibio, Diodoro, Posidonio, Strabone sono testimoni altrettanto validi, se non addirittura più significativi, dei maestri a cui ci si riferisce di preferenza. Si scopre nei loro scritti, o nei frammenti esistenti, l'espressione di una sintesi dello spazio-tempo che non ha equivalente negli scrittori classici.
Dobbiamo innanzitutto sottolineare il fatto che se la storiografia nel senso occidentale è nata in Grecia, l'affermazione di questo nuovo tipo di conoscenza è stata possibile solo nella misura in cui si perveniva a superare un certo numero di obiezioni pregiudiziali di cui oggi ci sfugge l'importanza. La nascita della storia presuppone la consacrazione e la convalidazione del divenire umano. Ora, se per noi l'importanza dell'evento va da sé, non altrettanto succedeva per gli Antichi. Come dice Ruyssen,

«la storia è un divenire che si svolge nel tempo; ora, divenire e tempo inquietano lo spirito greco, che vi scorge un miscuglio confuso di essere e di non essere e cerca, al di là, di raggiungere l'eterno: materia degli Ionici, Essere di Parmenide, atomo di Democrito, Idee di Platone, primo motore immobile di Aristotele»i.

Nello schema della conoscenza, il divenire storico appartiene al mondo della generazione e della corruzione. Il mondo sublunare è il luogo in cui si degrada il valore inalterabile e unico decisivo del mondo sopralunare. Se la storia è ricerca di ragione, essa si scontra con l'irriducibile opacità dell'ambito umano. Ogni intelligibilità discende dal cielo sulla terra; dato che l'esercizio di questa causalità è legato al movimento degli astri, il senso della storia, che a noi appare come un divenire rettilineo, deve essere necessariamente circolare per gli Antichi. Il tema dell'eterno ritorno impone lo schema di un Grande Anno che ricomincia ogni volta che le rivoluzioni degli otto pianeti li riconducono alle rispettive posizioni occupate in precedenza. Il Grande Anno sarà una durata storica corrispondente a un certo numero di millenni, misurata mediante il minimo comune multiplo dei tempi di rivoluzione dei diversi pianeti. Per Cicerone, questo periodo sarebbe stato di 12.954 anniii. Il tema dell'eterno ritorno è accettato per tutto il periodo di durata del pensiero antico e s'imporrà ancora, per il suo rigore logico, ai Padri della Chiesa. È chiaro che questo principio dell'universale ripetersi dell'evento equivale a una negazione del valore dell'evento stesso. Ciò che è, è stato e sarà infinitamente; la legge della storia universale sembra essere la legge del déjà vu,  che giusitifica una certa mancanza d'interesse per gli affari correnti dell'umanità.
Si può tuttavia pensare che la durata storica di un Grande Anno sia abbastanza vasta da mantenere l'attenzione dei dotti all'interno di un unico orizzonte. Ora, non sembra che gli Antichi abbiano mai disposto di un'attrezzatura mentale sufficiente ad articolare in maniera intelligibile il divenire temporale; essi non possiedono una chiara coscienza della diversità dei tempi e della successione cronologica delle epoche. La conoscenza del passato presuppone un quadro epistemologico, che noi acquisiamo a scuola. Ernst Robert Curtius ha sottolineato l'assenza di questo spessore del passato nella mentalità antica: «L'Antichità, scrive, non aveva della storia quella coscienza che noi abbiamo tratto dalla sua suddivisione in differenti periodi; essa era incapace di esprimere il suo sentimento, dato che mancava di concetti storici. È come se, al posto di nozioni chiaramente definite, quali Antichità, Medio Evo, Età Moderna (con le loro numerose suddivisioni), non avessimo a disposizione altro che il termine “preistoria”iii. Per i Greci, come per i Latini, tutto ciò che è vecchio, antico, venerabile, arcaico va a far parte della massa confusa di un passato considerato con una sorta di devozione che esclude ogni rappresentazione rigorosa della serie degli eventi: «regna nell'Antichità pagana e cristiana, osserva Curtius, un sentimento del tempo completamente nebuloso»iv. Egli cita inoltre un passaggio di Schelling che mette in parallelo, per l'uomo nel tempo, l'atteggiamento nei confronti del passato e l'atteggiamento nei confronti del presente:

«Quanto poco numerosi sono coloro che conoscono veramente il passato: codesto non potrebbe esistere senza un presente ben vivo, nato dalla propria separazione dal passato. L'uomo incapace di opporsi al proprio passato non ha passato, o piuttosto non può mai uscirne, perché vive costantemente in esso»v.

La storiografia antica sembra essere caratterizzata da un'insufficiente concettualizzazione; è una storia del presente, o dell'eterno, ma una storia senza storicità. Spengler ha sottolineato i limiti della lucidità di Tucidide:

«Ciò che gli è completamente inaccessibile è il colpo d'occhio prospettico sulla storia dei secoli passati, che è per noi con ogni evidenza parte integrante del concetto di storico. Tutti i capolavori degli storici antichi si limitano a riferire la situazione politica dei tempi dell'autore, in opposizione assai netta con i nostri capolavori storici che trattano tutto, senza eccezione, del passato lontano».

Tucidide, a dire di Spengler, non è che uno storico del presente.

«In lui, in Polibio e in Tacito, anch'essi politici pratici, la sicurezza del colpo d'occhio si annulla nel momento in cui si scontrano, nel passato, spesso soltanto a una distanza di poche decadi, con forze attive che non conoscono per esperienza personale diretta. Per Polibio, la prima guerra punica era incomprensibile; Tacito non capiva già più Giulio Cesare»vi.

È soltanto nel XVIII secolo che si forma l'ideale e che si definiscono gli strumenti della conoscenza storica in quanto disciplina scientifica. La storiografia antica opera in uno spazio mentale che non ha rapporto con quello degli storici moderni; i suoi mezzi e i suoi fini, i suoi criteri di obiettività e di valore normalmente ci sfuggono. Pare abbastanza chiaro che le opere di Erodoto o di Tito Livio, per esempio, anche se sono per noi documenti storici, assumono valore di verità ai nostri occhi soltanto con beneficio d'inventario, cioè mediante l'applicazione della critica quale la consideriamo oggi. Tuttavia l'emergenza della storia corrisponde alla possibilità di una forma razionale di conoscenza applicabile agli eventi umani. Il nuovo genere letterario è possibile di fatto solo se è autorizzato dalla presa di coscienza di questo o quell'aspetto fino allora trascurato della realtà.
Il termine historia  trascrive in latino una parola greca la cui etimologia rinvia a una radice indoeuropea che si ritrova nel greco oida:  vedere, nel latino videre:  vedere, o nel  tedesco wissen:  saperevii. Tutti questi vocaboli designano una conoscenza acquisita per esperienza personale; dalla conoscenza, si passa all'idea della ricerca che la produce, in modo che il termine historia designerà lo studio critico dei fatti, degli oggetti e degli eventi, così come il sapere che ne risulta e il genere letterario che si dà per scopo l'esposizione di questo sapere. Fino a Francesco Bacone, il termine historia conserva questo significato generale che evoca un'informazione empirica, una ricerca che riguarda tanto la realtà delle cose quanto la realtà umana. Per noi, la storia senza altra qualificazione è la storia delle società umane; l'espressione storia naturale  sussiste come arcaismo il cui significato effettivo si è perduto.
Così l'apparizione della storia caratterizza il momento in cui le cose di quaggiù risultano degne di una conoscenza intellettuale. La scienza prima riguarda le realtà trascendenti del mondo superiore; il sapere empirico può affermarsi solo quando si sarà superata l'obiezione pregiudiziale per cui non si dà valore al quotidiano umano. Così si spiega il fatto che, se si lasciano da parte gli archivi religiosi e i redattori di cronache locali, conosciuti sotto il nome di logografi, la prima opera storica degna di questo nome sia quella di Erodoto, Ionio trapiantato ad Atene, che, essendo vissuto dal 484 al 425 circa, è contemporaneo di Pericle e testimone del grande secolo classico. Shotwell ha messo in luce questo paradosso:

«è difficile comprendere che nessuna storia propriamente detta, nel nostro senso del termine, sia stata scritta in Grecia prima dell'apogeo della sua civiltà. I primi prosatori continuano a trattare gli stessi temi dei poeti; essi trattano più della storia degli eroi e dei clan aristocratici che di politica. Erodoto stesso fu il primo storico politico, il primo a trattare sistematicamente l'evoluzione degli Stati e gli affari delle nazioni; ed Erodoto, dopo tutto, è giunto molto tardi»viii.

Shotwell, di fronte a questo fatto sorprendente, aggiunge: «Non è perché i Greci mancassero di curiosità rispetto al loro passato che le loro opere storiografiche apparvero con tale ritardo. L'ostacolo fu rappresentato dal fatto che soddisfacevano la loro curiosità altrimenti che con la storia. Ciò che era necessario per promuovere la storia e gli storici era lo spirito critico, la critica scettica, in luogo della cieca sottomissione alle antiche autorità»ix. In altri termini, l'avvento della conoscenza storica è legato alla mutazione mentale grazie a cui la cultura greca ha potuto passare dal regno del mythos a quello del logos. Erodoto è esattamente contemporaneo dei Sofisti e la sua curiosità per le cose umane traduce nel campo della storia, della geografia e dell'etnologia, l'universale rimessa in discussione del sapere, e la ricerca di una verità incentrata sull'uomo.


2. La storiografia greca classica

Quando la ricerca storica sostituisce l'epopea, si compie un vero e proprio rinnovamento dei valori intellettuali e spirituali. Al regno della tradizione impregnata di obbedienza religiosa succede, di diritto se non sempre di fatto, il regno dell'informazione oggettiva. «Alla tipologia leggendaria si sostituisce una tipologia storica e, come, mediante il racconto, il fatto passato diviene evento, così l'individuo che agisce si trasforma in eroe.(…) La desacralizzazione del personaggio esemplare implica un cambiamento radicale nella concezione dell'eroismo: ogni uomo, con i suoi atti profani, può elevarsi a questa condizione»x. Questa celebrazione dell'umano in quanto umano compare infatti già dalle prime parole dell'opera di Erodoto: «Erodoto di Turi espone qui le sue ricerche (historia) per impedire che ciò che hanno fatto gli uomini, con il tempo, si cancelli dalla memoria e che grandi e meravigliose imprese, compiute tanto dai Barbari quanto dai Greci, cessino di essere ricordate…»xi.
Il tempo della storia è il tempo degli uomini, quale i Sofisti lo determinavano nella sua specificità, in opposizione al tempo degli dèi, evocato dalle cosmologiexii.
Però, gli uomini che agiscono umanamente nei racconti di Erodoto non obbediscono a motivazioni razionali, alla maniera dei personaggi di Tucidide, presso i quali il logos si sprigiona con molto più decisiva chiarezza. La spiegazione dei comportamenti storici resta debitrice dei temi tradizionali tratti dalla religione; misura e dismisura, Moira, destino e vendetta degli dèi forniscono l'interpretazione ultima degli eventi. Questa saggezza impregnata di devozione costituisce gran parte del fascino dei racconti di Erodoto; essa non corrisponde evidentemente all'idea di una storia come spiegazione umana della realtà umana.
Tuttavia, le conoscenze di Erodoto sono considerevoli. Lo storico appare come un ricercatore che cerca ovunque informazioni e si sforza di realizzarne la sintesi. Erodoto fu un viaggiatore, un missionario della curiosità, e se ha potuto creare un nuovo genere letterario e scientifico, è senza dubbio perché la sua esistenza non è stata confinata fra le mura di una città, nemmeno fra i bastioni di Atene. Ionio di origine, è nato ad Alicarnasso, colonia dorica in Asia Minore, e morirà cittadino della colonia di Turi, in Italia, dopo aver percorso in lungo e in largo il mondo da Oriente a Occidente. Lo storico ha una visione delle cose umane nello spazio e nel tempo; una tale visione è facilitata dagli spostamenti dell'osservatore che gli permettono di conoscere la relatività delle prospettive. Thibaudet notava sottilmente:

«Non è affatto un caso che i quattro storici greci, Erodoto, Tucidide, Senofonte e Polibio, siano degli sradicati. Tutti e quattro occupano la stessa posizione sulla soglia dei due mondi, l'Oriente e la Grecia, Atene e Sparta, la Grecia e Roma. La musa dei destini greci sembra impedire al cittadino di fare opera storica all'interno e al servizio della città. La pura vita storica sembra esigere allora lo sradicamento…»xiii.

Questo sradicamento è la peculiarità dei Sofisti; essi prendono le distanze dalla città, i cui limiti sono troppo ristretti per essere misura della verità. Erodoto è uno dei fondatori delle scienze umane perché è il testimone e l'osservatore del confronto fra le culture. L'evento centrale della storia del mondo è per lui la lotta fra i Greci e i Persiani; è personalmente legato a questo dibattito poiché, greco, ha vissuto la sua giovinezza in una città dominata dai Persiani, cioè in un luogo d'incontro fra l'Oriente e l'Occidente. Senza dubbio, l'essenziale della sua opera consiste nel racconto delle guerre contro i Medi, quali apparivano nell'Atene dal 460 al 440, una trentina d'anni dopo Salamina. Ma Erodoto non si accontenta di affermare il patriottismo ateniese; non professa un disprezzo di principio nei confronti dei barbari. La sua curiosità si applica a tutto ciò che è lontano, ai popoli e alle civiltà, alle religioni e alle culture. Non inventa la storia, ma una sorta di sintesi della conoscenza, che comprende anche la geografia e quello che, molto più tardi, doveva diventare l'etnologia. Il dominio umano nella sua diversità diventa degno di una simpatia che si esercita attraverso la curiosità. Questa curiosità oscilla ancora, nel primo movimento della sua spontaneità, fra l'astratto e il concreto, il che preserva, nella narrazione dello storico, quasi il sapore del racconto. Il momento di Erodoto, come si è detto, è il momento «in cui la gioia arcaica per la pienezza del reale si incontra con lo sforzo classico per subordinare questa realtà a pensieri che la dominano»xiv.
Solo una generazione separa Erodoto da Tucidide, aristocratico ateniese, eletto stratego nel 424, nei primi anni della guerra del Peloponneso, condannato, in seguito ad una sconfitta, a un esilio che durerà venti anni e da cui ritornerà, nel 404, solo per morire nei torbidi che agitano lo Stato ateniese, destinato ad un inarrestabile declino. Ma se, tra Erodoto e Tucidide, la distanza cronologica è ridotta, la distanza intellettuale è considerevole; essa attesta un completo rinnovamento dello spazio mentale nel senso di una equazione intellettuale del campo umano. La ricerca empirica e concreta lascia spazio a un'analisi razionale, il cui scopo è quello di pervenire a una spiegazione rigorosa del divenire storico.
Con Tucidide, scrive François Chatelet, la storia «cesserà di essere una serie contingente di eventi per divenire una concatenazione ineluttabile di fatti, che rivela contemporaneamente leggi necessarie di evoluzione, categorie politiche e le dimensioni più profonde della natura umana. Al di là del dato immediato si profilano cause che, anch'esse, indicano ragioni»xv. In altri termini, la storia non è più un racconto più o meno edificante; essa diviene una disciplina rigorosa che ha lo scopo di mettere in luce le articolazioni logiche immanenti al divenire sociale. La storia secondo Tucidide, scrive ancora Chatelet, «è più una dimostrazione che tende a individuare le leggi generali di una evoluzione storica che un racconto che mira a rendere imperituri gli eventi passati»xvi.
L'epoca di Tucidide è quella in cui la storia, rifiutando il mythos, si vuole completamente fedele soltanto all'esigenza del logos. Lo storico dice di aver confrontato e analizzato i testimoni degli eventi di cui parla, escludendo il pittoresco e l'impreciso, per conservare soltanto il certo e l'essenziale.

«Forse l'assenza del favoloso dai fatti li farà apparire meno gradevoli all'ascolto: ma se quanti vorranno vedere la verità degli avvenimenti passati e di quelli che nel futuro si saranno rivelati, in conformità con la natura umana, tali o simili a questi, giudicheranno utile la mia narrazione, sarà sufficiente. È stata composta come un possesso per sempre, piuttosto che come un pezzo per competizione da ascoltare sul momento»xvii.

La storia è dunque il recupero razionale e la spiegazione del divenire confuso degli eventi umani. Ancora una volta, si basa sul presente, la cui importanza risulta privilegiata. Questa tesi è affermata all'inizio stesso dell'opera:«L'Ateniese Tucidide ha descritto come i Peloponnesiaci e gli Ateniesi si fecero guerra. Egli la riprese dalla sua origine, avendo supposto che essa sarebbe stata di una grande importanza e che avrebbe anche sorpassato per fama tutte le precedenti (…). Fu il più grande movimento che si produsse in Grecia, coinvolgendo una parte dei Barbari, e che, per così dire, assunse carattere universale…»xviii. Questa storia, che si vuole universale, risulta dunque singolarmente sprovvista di storicità; essa si svolge come una storia del presente, e pretende di approdare a una sorta di storia dell'atemporale, che fornisce una spiegazione valida per sempre.
La lucidità ha la meglio sulla curiosità, che dominava in Erodoto. L'idea fondamentale di Tucidide è la «rappresentazione della costanza del carattere umano attraverso le età, dell'identità sostanziale, nelle sue reazioni, dell'umanità attuale con tutti i gruppi umani del passato e con quelli dell'avvenire»xix. La spiegazione che, in Erodoto, era ricercata nel rapporto fra l'umano e il divino, si trova ora nella natura umana stessa (anthropeion) . Charles Mugler ha tentato di mettere in relazione il razionalismo storico di Tucidide con le correnti filosofiche della sua epoca. Al tempo dell'esilio, lo storico ha potuto incontrare Ippocrate e l'atomista Democrito; il suo pensiero ha trovato ispirazione nell'affermazione contemporanea dei Sofisti e in quella dei fisici e medici; l'ammirazione per Pericle, eroe della ragione lucida, evoca l'insegnamento del suo maestro Anassagora, secondo il quale è prerogativa del Nous, dell'intelletto, mettere ordine nelle cose. «Il procedimento di Tucidide consiste dunque nell'applicazione al suo campo di ricerca, alla storia, di un metodo che occupa in tutta questa fine del V secolo un posto di primo piano nel pensiero greco in tutte le sue forme, la ricerca della verità ultima mediante scomposizioni spinte il più lontano possibile»xx.
Alla fredda luce della ragione, la storia si costituisce come una scienza delle motivazioni umane. E le prospettive che questa scienza dell'uomo apre a Tucidide,  il vinto e l'esiliato, non autorizzano affatto la speranza in un progresso. Questo pessimismo, a dire di Jacqueline de Romilly, è un segno dei tempi: «una regola pressoché inevitabile vuole il trionfo di alcune tendenze umane che vanno contro la giustizia e contro la saggezza. Così, malgrado l'alta realizzazione che Tucidide celebra con il personaggio di Pericle e l'imperialismo di questa epoca, la sua opera consacra innanzitutto una sconfitta, che egli trasforma in una sconfitta umana»xxi. Ma questo dramma personale, che è quello dello storico unitamente a quello del suo modello, riflette il dramma della civiltà greca in questa fine del V secolo in cui si annuncia la fine dell'età classica, incentrata sull'esaltazione della città ventura. Tucidide è il teorico della fine dei tempi, il pensatore al limite, ma non il teorico del limite, nel momento in cui l'area mediterranea sta per tuffarsi nella grande avventura degli imperi universali.

«Tucidide non suggerisce mai che altre soluzioni siano possibili. Egli non vede al di là di questa città che cerca così drammaticamente di realizzarsi, e in ciò rimane decisamente un uomo del V secolo. Nel momento in cui gli Ateniesi stabiliscono come fine essenziale e come quadro del loro pensiero lo Stato, o meglio, la Città, Tucidide, lui, si innalza a una teoria intellettuale dell'azione (…). Essa prende in considerazione i problemi solo dall'interno della città, senza nulla concludere contro di essa. E questo fatto fornisce la chiave del suo pessimismo (…) Si può dire che, cosciente o meno, questo scacco che consacra l'opera di Tucidide è la sconfitta della città»xxii.

La razionalizzazione dell'umano si trova, in qualche maniera, quasi a essere in equilibrio instabile in rapporto al divenire stesso della realtà storica. Lo spazio mentale è debitore della ristrutturazione dello spazio geopolitico; il IV secolo è un periodo incerto, fino al momento in cui l'iniziativa di Alessandro darà un volto al mondo nuovo. L'attenzione storica, non potendo fissare le grandi linee di un divenire, si rivolge verso altri obiettivi. Senofonte pretende di continuare la Storia di Tucidide, ma il suo racconto si riduce a una pura narrazione degli eventi, quali possono essere immaginati da un ufficiale di stato maggiore. Nella vita pubblica tormentata di Atene, e davanti all'aggravarsi del pericolo macedone, la storia diventa il rifugio nostalgico di coloro che rimpiangono i tempi perduti dei grandi avi. Cessa di perseguire l'analisi della realtà umana per ridursi a fornire un repertorio di luoghi comuni retorici.

«Il richiamo alla storia è costante presso gli scrittori del IV secolo, scrive Vidal-Naquet, e prima di tutto fra i retori. Ma si tratta in particolare di un richiamo; il passato diviene una fonte di paradigmi, cioè di miti. Un uomo come Isocrate elimina ogni distinzione fra il tempo mitico e il tempo storico. O meglio, il passato ridiventa il tempo degli dèi, quello dei doni divini»xxiii.

In altri termini, dato che ogni storia è storia del presente, se il presente svanisce, il passato stesso diviene inconsistente. O si cercherà in esso un rimedio immaginario contro l'ingrata attualità, oppure si rigetteranno completamente il presente e il passato per affidarsi alle consolazioni della metafisica, che rappresenta la soluzione platonica. Esiste comunque un'altra via, quella imboccata da Aristotele. Il tentativo di definire un'intelligibilità intrinseca della storia è fallito; bisogna prendere partito. «Fino a quando la città è una sostanza solida capace di mobilitare l'energia, il divenire porta in sé un messaggio metastorico, dal momento in cui essa perde la sua coerenza interna e il suo significato morale, il divenire è soltanto ciò che è, una serie di eventi popolati di casualità e di atti di forza»xxiv. Nella Poetica, Aristotele sottolinea la superiorità della poesia sulla storia; la storia riguarda le realtà particolari, mentre la poesia descrive la realtà umana in generale. Per esempio, la storia racconta ciò che Alcibiade ha fatto o sopportato, e non il generale e il necessarioxxv.
Ma il genio di Aristotele, di fronte a questa conoscenza che non è una conoscenza, fonda un sapere nuovo che sceglie la realtà empirica e si dedica innanzitutto alla descrizione dei fatti, secondo il metodo adottato dal medico o dal naturalista. La Politica di Aristotele, e la collezione delle costituzioni sulla quale si fondava, definiscono una nuova epistemologia, orientata verso una scienza politica e storica, a carattere positivo e quasi tecnico, nella rinuncia a ogni ontologia e a ogni teologia. «Non si chiede più alla città, scrive Chatelet, di costituire il fine supremo di ogni attività umana, come nel V secolo (…); non si può più sperare di far regnare un giorno una giustizia di prim'ordine che sia nello stesso tempo prova del carattere divino dell'uomo e stimolo alla vita contemplativa; si esige semplicemente da essa che possieda una stabilità e un ordinamento tali che l'uomo posa vivervi felicemente». Una sorta di disillusione metafisica ispira «questa rinuncia a un'intelligibilità d'insieme, questa frantumazione del divenire in temporalità diverse»xxvi.
Il naturalista Aristotele definisce una scienza dei fatti sociali concreti che si occupa dei tipi e delle strutture piuttosto che dell'evento. Senza essere storico suggerisce una nuova concezione della storia. Ma il pensiero empirico e analitico di Aristotele non troverà continuatori. Solo la sua logica e la sua metafisica beneficieranno, molto tempo dopo, di uno stuolo di seguaci forse eccessivo. Il tempo del positivismo giungerà soltanto venti secoli più tardi, quando Montesquieu ritroverà l'ispirazione di Aristotele nel campo della scienza politica e della sociologia, nel momento stesso in cui Linneo e Buffon, da parte loro, riprenderanno e faranno progredire in maniera decisiva una biologia rinnovata rispetto a quella della Storia degli Animali.
Aristotele fu il precettore di Alessandro; ma il rapporto fra il pensatore e il conquistatore non evoca in questo caso quello fra Hegel e Napoleone. Hegel credeva di interpretare il senso dell'avventura napoleonica; Alessandro, da parte sua, anche se ebbe coscienza del genio militare del suo maestro, non si considerò minimamente l'esecutore del suo pensiero. L'universo che l'impresa del conquistatore ispira, è un universo non aristotelico. Aristotele definiva l'uomo come animale politico, cioè essere la cui esistenza è chiamata a svilupparsi nel quadro della città. Alessandro crea un impero cosmopolitico, del quale tutti gli uomini sono chiamati a far parte in qualità di cittadini. Aristotele afferma la preminenza, di fatto e di diritto, dei Greci sui Barbari. Alessandro rifiuta ogni distinzione di valore fra le etnie e le religioni; onora tutti gli dèi e accoglie gli uomini senza distinzione di popolo e di razza.
Alessandro, per il modo stesso in cui ha fatto la storia, ha determinato un nuovo modo di comprenderla e di scriverla. Il cosmopolitismo di Alessandro trova il suo prolungamento naturale nell'universalismo stoico. L'esito della sintesi ontologica dello spazio-tempo culturale è un'epistemologia che trova  piena espressione nella geopolitica della cultura ellenistica. Lo stoicismo non risulta sempre una dottrina sistematica, e di stretta osservanza; esso si è diffusa gradatamente e ha ispirato una sensibilità spirituale, che ha dominato la mentalità fino alla fine del mondo antico. Il tema dominante è quello di una conoscenza totalitaria, che assorbe la realtà umana nel divenire universale. La scienza dell'uomo non è, e non può essere una scienza separata, dotata di uno statuto proprio; si limita all'applicazione in un settore particolare dei ritmi ontologici che devono prevalere ovunque.

«Lo Stoicismo, diceva molto bene Émile Bréhier, è stato una predicazione del Logos; è il Logos che unisce gli uomini e gli dèi, esseri raziocinanti, per i quali sono state create tutte le altre parti del mondo, e che sono i cittadini di quella grande città che è l'universo. Il Logos è ad un tempo il principio dell'ordine universale, che si manifesta nella simpatia e nell'accordo di tutte le cose fra loro, e la forza che fa l'unità di ogni sostanza reale, coesione nella pietra, potenza vegetativa nella pianta, sensazione nell'animale, ragione che associa gli uomini e gli Dèi. Il Logos è la legge dell'universo, la legge delle città e la legge morale: come legge dell'universo esso è sia destino che provvidenza, Destino, cioè principio che assegna a ogni essere e a ogni evento il proprio posto, senza permettere indeterminazione né casualità, fosse anche nel più piccolo dei dettagli, Provvidenza, cioè potenza intelligente e buona che tutto ha creato in vista degli esseri raziocinanti. Legge delle città, è quello che, innato nella natura umana, ordina il da farsi e vieta il contrario. Legge morale, è per il Saggio, consenso all'ordine stesso che ha creato»xxvii.

Questa filosofia ottimistica dell'intelligibilità radicale è una filosofia del pieno, perché «il verbo riempie ogni realtà in noi come al di fuori di noi»xxviii.
La cosmologia tradizionale dell'astrobiologia si trova qui integrata in un'ampia sintesi che conferisce un senso razionale tanto ai miti e alle religioni popolari quanto alle procedure della divinazione. Nello stesso tempo si trova definita la possibilità di una filosofia della storia che, all'interno delle  grandi fasi prescritte dall'eterno ritorno, permette di scoprire l'ordine provvidenziale degli eventi umani.

«Poiché gli dèi esistono, afferma Cicerone, è necessario, dal momento che sono, non solo che abbiano un'anima, ma anche che siano in possesso di ragione, e che siano legati tra loro da una sorta di unione o di associazione politica, che governa un mondo unico, come se si trattasse di una repubblica e di una città universali. Da ciò consegue che c'è fra loro una ragione identica a quella della specie umana e, dalle due parti, una  stessa verità e una stessa legge, che consistono nella prescrizione del bene e nella proibizione del male (…) Se vi sono nello spazio umano intelligenza, fede, virtù e concordia, da dove possono essere discese sulla terra se non dagli esseri di sopra? (…) Dato che noi abbiamo provato abbastanza la divinità di questi esseri di cui vediamo la singolare potenza e l'aspetto luminoso,voglio dire il sole, la luna, i pianeti e le stelle fisse, il cielo, il  mondo stesso e la forza delle cose che sono nel mondo intero per l'utilità e il vantaggio della specie umana, ne risulta che tutto è governato da un'intelligenza e una saggezza divine»xxix.

Nella prospettiva di questo disegno epistemologico, la geografia e la storia, che sono apparse  all'intelligenza moderna come scienze di fatto, si costituiscono innanzitutto come espressioni di questa religiosità cosmica, col favore della quale il sapere antico ha potuto avere uno sviluppo eccezionale. L'influenza stoica è qui decisiva. Non è che non siano esistite conoscenze in materia di geografia o di storia prima  del terzo o del secondo secolo, ma è in questo momento che si realizza una sistematizzazione delle scienze umane che associa strettamente discipline che oggi separiamo. Polibio, grande viaggiatore, colloca nelle sue Storie lunghe descrizioni dell'ambiente geografico; Posidonio di Apamea , riformatore dello stoicismo (131-47), continua la storia di Polibio, pur scrivendo trattati di geografia. Strabone stesso, che ci ha lasciato la più grande summa geografica dell'Antichità, era anche autore di un'opera storica, destinata a  completare quella di Polibio portandola fino al regno di Augusto. Questo stesso allargamento della prospettiva epistemologica appare in Tolomeo, il maestro astronomo dell'Almagesto, che compone, nel secondo secolo della nostra èra, una Guida geografica, in cui si trovano riprese la maggior parte delle tesi dei suoi predecessori. La geostoria degli Antichi riunisce dunque elementi oggi dispersi, in stretto legame con l'intelligibilità astrobiologica e con le rappresentazioni matematiche.

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Le origini delle scienze umane 


LA CULTURA MEDIEVALE

A. La cultura  È patrimonio ecclesiastico


L'Occidente medievale ha ereditato dall'Imperium Romanum la struttura politica, amministrativa e giuridica; ma al di là delle frontiere e dell'articolazione geografica non ha ricevuto niente di nuovo nel campo intellettuale e spirituale. La struttura complessiva dell'Impero ha un'anima ellenica e i Romani non hanno aggiunto nulla a questo tesoro, che hanno acquisito come diritto di conquista; essi hanno solamente apportato, in qualità di barbari “arrivati”, la pace, una buona amministrazione e la tecnica atta a garantire la prosperità.
Con il passare dei secoli, il sistema complessivo della civiltà romana si decompone. L'impercettibile decomposizione dell'autorità prepara una nuova età della storia, che si viene delineando nel corso dei secoli bui, quando l'aumento delle minacce esterne si accompagna con l'anarchia interna. Il fenomeno delle grandi invasioni, in gran parte ancor oggi misterioso, non deve essere concepito come un improvviso maremoto che abbia sommerso un bel giorno la prosperità mediterranea. L'instabilità demografica era un carattere costante dell'epoca antica; dopo secoli, i Romani si erano trovati a dover affrontare le migrazioni dei Galli, dei Cimbri o dei Teutoni e la politica imperiale era consistita nel bloccare le bellicose tribù selvagge alle frontiere e a includerle nel sistema difensivo di Roma. Tacito aveva dedicato un piccolo saggio di etnografia ai barbari Germani, con i quali gli imperatori intrattenevano da tempo rapporti di coesistenza più o meno pacifica.

IL RINNOVAMENTO DEI SIGNIFICATI NELL'ETÀ RINASCIMENTALE


 

IL PERIODO RINASCIMENTALE

 


La nozione di Rinascimento, oggi evidente di per se stessa, designa una fase della nostra cultura indispensabile per una sana economia della storia, e non si vede come gli storici potrebbero farne a meno: Antichità, Medioevo e Rinascimento si susseguono secondo uno schema sancito dalla tradizione dei manuali destinati ai ragazzi delle scuole. I vari comparti della durata propongono agli autori di romanzi storici, di scenari o di fumetti orizzonti immaginari ben precisi per l'ambientazione delle loro avventure.
Un esame più rigoroso rimette in discussione questa certezza immediata. Il concetto di Rinascimento applicato a un momento della storia è il risultato di una visione restrospettiva. «Gli uomini del Rinascimento, vivendo all'interno di una società e di una cultura percorse da rapide trasformazioni, non erano in grado da sé di comprendere il loro tempo come un insieme ben definito e di coglierne chiaramente la relazione con il passato»1. I concetti della storia sono prodotti della storiografia, ciò equivale a dire che sono gli effetti di una retroazione della coscienza culturale, che ricostruisce il suo passato alla luce del suo presente. Il senso di un'epoca appare quando quest'epoca si conclude e può essere collocata in un insieme più vasto.
L'idea di Rinascimento è stata elaborata dagli storici dei secoli successivi a questo periodo storico. La loro lettura del passato era ispirata dalla concezione che essi avevano del proprio presente e dall'interpretazione che davano dell'avvenire dell'umanità. Ferguson, che ha dedicato un'opera allo studio del concetto di Rinascimento presso gli storici dopo il XVI secolo, osserva che le tesi formulate dagli uni e dagli altri gli sembrarono «strettamente collegate da una parte alle interpretazioni del Medioevo, dall'altra agli atteggiamenti assunti dagli storici nei confronti della cultura del proprio tempo»2. Lo storico stesso deve essere collocato storicamente; i suoi pregiudizi personali intervengono come altrettanti rivelatori del passato; essi sono ad un tempo strumenti epistemologici e ostacoli per una totale e impossibile comprensione. Come sottolinea uno specialista francese,

«il Rinascimento costituisce un eccellente reagente per misurare le tendenze e le idee di un uomo e l'opinione del teorico su di esso ci fa conoscere meglio lo storico che il suo ogetto di studi…»3

Vediamo qui affermarsi l'irriducibile circolo ermeneutico, la cui presenza è rsicontrabile sia presso lo storico che si occupa del regno di Luigi XIV, sia presso quello che studia la Rivoluzione francese. L'oggetto storico è corrispettivo del soggetto rappresentato dallo storiografo; è normale che ogni rinnovamento della coscienza culturale abbia per conseguenza una riconsiderazione della materia storica, in funzione dei valori che si sono affermati recentemente. La percezione del fatto è organicamente correlata con un processo di valutazione. Tuttavia, quando si tratta del regno di Luigi XIV, o della Rivoluzione, il dato storico comporta elementi ben determinati, validi universalmente. Il regno personale di Luigi XIV si estende dal 1660 al 1715; la Rivoluzione francese è scandita da un certo numero di date e di eventi che possono essere diversamente interpretati, ma che comunque costituiscono una serie ordinata di punti di riferimento che nessuno pensa di rimettere in discussione. Il caso del Rinascimento è molto più complesso: questo concetto storico fondamentale sembra dileguarsi nel momento in cui si tenta di definirlo in modo preciso. Non soltanto le caratteristiche invocate sono diverse, se non contraddittorie, non solo i limiti cronologici e geografici dell'ambito rinascimentale danno luogo a interpretazioni non concordanti, ma è anche successo che alcuni storici giungano a negare la legittimità di questo concetto epistemologico.