L'uomo e i suoi brandelli

1. L'uomo dei frammenti


L'attacco potrebbe essere puramente casuale.
Charles Maurras, ad esempio, tuonava così:

– Il grande successo delle idee dell'"Action française" non si discute se non a patto di chiudere gli occhi all'evidenza, e rifiutarsi di leggere i segni così tangibili della radicale trasformazione dello spirito sociale. Nessuno più crede alle chimere del 1789 o a quelle del 1848.
Si ripongono sugli scaffali come oggetti da museo e curiosità da collezionista. Non si usano più. –

A fianco, le litanie di Sorel, contro lo Stato e contro il marxismo.
Tutto ciò alle pagine 244-245 di un manuale di storia.
E  qui comincia la nostra.
Proseguiamo nello "sguardo": nel 1948 il famoso reporter Robert Capa scattava foto nella Varsavia distrutta: due donne camminano in mezzo a macerie, pietre disseminate qua e là, i resti di una porta fra le mura; sullo sfondo tre edifici, quasi intatti, ed una chiesa in buono stato di manutenzione. Qualche arbusto.
Scorgo alcuni volti umani (foto Henri Cartier-Bresson, 1949): soldati dell'esercito rosso di Nanchino, sotto gli sguardi attoniti e irridenti di bimbi gialli, di fresco rasati.  A fianco i bianchi peli del petto di Gandhi (foto di Margareth Bourke-White, 1946).
Non c'è più tempo, questa sera per andare oltre. Il cuore si riempie di pensieri. Ciò che spesso, da troppo tempo ormai, non riusciamo più a fare; nei colloqui della sera, nei locali in faccia al mare, fra le fronde dei pitosfori e la risacca si è spento il gelido lamento del pensiero che piombava, un tempo, a ripescare il senso tradito delle cose. Quasi una collezione di date lasciate fuori casa, stropicciando sullo zerbino, che ora ho addirittura lasciato altrove. Non ci si puliscono più nemmeno i piedi, entrando.
Il succedersi delle generazioni dopo la guerra risiede in me, in noi, senza che ce ne vogliamo accorgere e si allontana a velocità crescente; e quanto sforzo ci corre per ridar colore a quelle ombre fugaci che di tanto in tanto si accompagnano al colore delle mantelle per la pioggia, grigie, sdrucite, o nel candore della panna che galleggia tenera in una tazza calda, là in Vico della Casana. E quei riflessi fra i tetti scomposti,  a malapena aggraziati dal sole, scandivano il tempo insieme ai clock di una pendola instancabile, in quella casa. E dietro ci senti il muovere composto dell'uomo che ha ordinato il tempo e le stagioni, in  un se stesso incrollabile (che già crollò a suo tempo), ma ricomposto con paziente e vigile opera di mediazione dei suoi frammenti. La scena è rapida, bastano due inquadrature: mentre osserviamo le sue pantofole stagliarsi sul pavimento nitido, ordinato a squadra con il tappeto su cui poggia una poltrona a dondolo,  viennese,  il tonfo del libro che lui teneva nella mano prima di addormentarsi nella vecchia poltrona solleva, dopo qualche ritonfo, una foto dei tempi della scuola, scivolata vicino al bicchiere posato lì, a portata di mano.
Prova a leggere la data, quello che c'è scritto dietro: riosserva quei volti, rimuovi la rimozione. Scatta il pensiero? Sì, scatta, e ti lascia senza fiato. Ed è allora, in quei momenti, che il tempo non fluisce più dal futuro, ma viene dal passato e le orde incuccolite della mente vanno per la loro strada, venendoti incontro e poi sorpassandoti che neanche te n' accorgi.
Tutto ciò indicava la situazione di qualsiasi di noi e l'uomo dei frammenti si aggira ovunque. Si aggira stanco, ha il volto scuro, non volge l'occhio se non per godere di qualche facezia, quando gli aggrada. E si muove lungo i canali, dove si va a spogliare dei folti inganni che gli ingombrano la mente. Sul naviglio, al calar della sera, lascia la riva e nuota e nuota, perdendosi fra il luccichio del tremulo fluviale che poi lo porta con sé, e scende nella corrente, dando di tanto in  tanto qualche trattoncello agli arbusti, all'erba, a qualche fardello abbandonato, e sfiora la vita e via di colpo in colpo, di colpa in colpa, di pensiero in pensiero. Quasi borbotta qualche ruttoncello di esistenza, e un nichelino nella tasca gli ricorda un vecchio tram (la circolare presa in senso contrario per un lungo, interminabile viaggio, nella città dove la neve non fa storia, neppure al Valentino).

2. Formato stampa.

Accompagnato da un lungo, tenero e smisurato tramonto d'aprile, snocciolavo sembianze d'esistenza per l'immediato futuro; lei, accanto, sognava un suo pensiero, quei tanti moti della mente in cui lo riassumiamo, perdendosi dentro a quel barbaglio. Fra le sue spire, dei capelli, del corpo e della mente forse pensava altrove: ma era là l'epicentro, il corpo denso del problema; sul rettifilo che costeggia il vero inizio delle Alpi, andavo fingendo una MG filante, curva a curva, sui tornanti, fra cieli a nube e azzurro smaglianti, preludio ad un riposo fra rumori di forchetta sopra il mesto odore della calda accoglienza di una stübe. Segno di un altro tempo, segno di pace, segno di ansia rarefatta che si sdipana in luci naturali. Certo, dolce sentiero, m'hai tenuto bordone, meglio che nella notte la scura foresta di Corsica, che mi esplose innanzi, dentro i fari, risucchiandomi fino a quella vecchia stazione. Consumammo, allora, un pasto al risparmio, con quella vecchia mummia, davanti, che, avvolta in uno scialle dignitoso, succhiava la sua minestra. Ma, via, le labbra erano troppo truccate, e quelle mani di settantenne, dagli ampi solchi e vene rilevate, tremavano all'istante; e quel parlare fragile, scomposto, in un francese stento ci dava quasi angoscia. Così, giungemmo  - nella metafora -  a quel castello. Il viaggio! Già! In fondo è un 'topos', ma chi ci si mette ancora? Chi ci crede, e noi ci credevamo, e tenevamo le cose in un cofanetto ove sostavano le fole della mente, e la finzione.
È qui che volevo arrivare.
Luna, portandomi a spasso, in una pioggia che quasi non ti tocca, sostava presso una pisciata, col suo interesse tipico di cane. Io mi scostavo da quell'attimo e, d'improvviso, un lume; in quel che  scrivo, -  mi dico  -, non c'è
Ho dato un breve sguardo, il tempo della memoria, il tempo di schiodare dal passato pensieri...
L'incongrua sistemazione d'alveare, e l'essersi diversi, o la dimestichezza con l'infinito riprodursi delle esistenze, delle vite e dei pensieri?
Di qui, il prossimo è breve: per cui pensai  -  "La transparence et l'obstacle", quel libro su Rousseau, che pieno! La trasparenza, ostacolo in vita per lui. Per chi comprende, pensavo, è chiaro: la finzione paga sul momento. Ma poi lo stravolsero; la trasparenza diviene così un gioco letterario e chi traspare non è più lui. Bella forza! Solo il contesto recupera, ma quando tutto è già passato. La scienza non passa: oh, sì, invecchia, ma non passa. E ti ritrovi con le pantofole, in poltrona, col trascorrere dei giorni e la noia, come anelli di fumo ti sorprende a nulla recitare come il Mercuzio, che muore nel lamento.

Regina Maab

-  Entra nelle case ed insegna alle ragazze a farsi caricare; […]

Ed il meraviglioso diviene, resta, macchina poetica: e così sia.
E così sia.

Se fosse solo un fardello…

Lasciai per un momento la sua mano; dedicando un  po' di attenzione al mio animale (Luna), presi fiato per replicare a un mesto pensiero: un respiro, a volte, ti dà il tempo di scongiurare quell'attimo d'intempestività. Le cascatelle di quel fiume  d'Albenga e quei castagni, fra le radure e la montagna raccontavano da sè il fatto, il tempo e la questione; volsi un braccio a mezz'altezza, interlocutorio come il ciglio della strada, e quella roccia a mezzo il fiume su cui sostava il tempo cui non fu concesso abbandonarsi. Tremò per un attimo la tua bocca; una smorfia d'incertezza. Forse era già tardi.
Domenica. È pomeriggio.
E via nel vento.
E via.
E ancora si riparte, e non c'è nulla che ti riporta indietro.


Un fardello


Già!

Saliva curvo quell'uomo, portava  le pigne nella gerla, colma che ne perdeva quasi ad ogni passo. Saliva, sù, per la strada di un vigneto vicino a Trento, in un settembre de Cinquantasette, e fra le foglie spezzate guardavo i suoi abiti e la sua immobilità. Cioè: continuava a camminare, senza spasimo, e non si curava dei pezzi che cadevano ad ogni sussulto, quello che conta è – arrivati in cima – averne perso il meno possibile.
L'uomo sale e non si cura di nulla. Egli sa che non c'è nulla da fare. E l'uomo di montagna con la sua gerla di ricordi non demorde: avanzando si perde, lo sa e con maestria se ne fa una ragione.
Ma oggi no: perdere qualcosa è già maceria, maceria!
E pensare che la mia metafora un tempo significava tutt'altro. allora contava il sogno del riempimento, era il fardello di chi procede.

– Incurva il fragile uomo

e pesa sul comodo ciglio;
frammenti di voci e di mani
di gesti,
di nuovo scompiglio –

– Scende una chiatta sul fiume,
s'incespica in un mio nascondiglio:
di cenere odore e sapore,
di terra colore,
d'amore il sapido umore –

– Sale il sentiero, è solenne,
s'intrufola un gelo perenne;
s'apprende una gocciola e cade
fra le foglie, che sono rade
rase, le case le cose
l'azzurro e le mimose
amorose
il pensiero
che vero
col cielo più nero
m'invade
senza che addentro ai pensieri
più veri
si svenda la sera
coi morbidie rari tormenti che valgono un giorno
tornato a pensare di sè

fra le sponde del treno che  passa

accanto in quel tempo di seta,

festoso, gagliardo ed amico,

quel cielo di pace,

quel fiore vermiglio,

quel cielo di biada,
quel fiore di giada,

là, presso la strada.

– Å nos amours si j'avais plut –
Cantava, mi pare, Alain Barrière.
J'aurais perdu, j'ai tout perdu
tout ce que j'aurais bien voulu…


Meinecke fragmenta

Per cominciare ho rifiutato un frammento sulla ricerca.
Quanto della cultura del Novecento ci è andato perduto !

Quante volte mi penso negli ultimi anni a colloquio con i grandi. Come se bastasse.... Mi sfiora e consola tutt'altro : e sulla via del Secretum  colgo solo me stesso, o quei FRAMMENTI che tentano di combaciare. E così si profila il primo mistero doloroso della de-frammentazione.

Una citazione che amo, da tempo ormai indefinibile, e che per l'ultima volta mi ha stupito sul volto di chi mi stava ad ascoltare, è la pozzanghera di Rimbaud.

Si je désire un'eau d'Europe c'est la flache noire et froide où vers le crepuscule embaumé un enfant accroupi lâche son bateau frêle comme un papillon de mais.

Mi spiace Rimbaud, ma te l'ho rubata. Anche perchè la tua pozzanghera, per me, si sposa con quella  «dove i ragazzi agguantano qualche sparuta anguilla». L'anguilla di Montale, quella che risale in profondo sotto la piena avversa, filtrando fra gorielli di melma, e FINCHE' UN GIORNO UNA LUCE SCOCCATA DAI CASTAGNI NE ACCENDE IL GUIZZO IN POZZE D'ACQUAMORTA.
Questo mi ha sempre acceso; forse anche questo è depredare, ma forse non è quello che lui voleva dire. Io, per me, preferisco trattenere, con forza, questa tentazione. Quei gorielli di melma, quel limitare della strada, quei percorsi periferici, quel meraviglioso a portata di mano che normalmente non si schiude, è per noi l'inessenza che s'addensa.
S'addensa.
Hai mai provato questa sensazione?
Andiamo per metafore.
In Montale la sacra rivelazione, casuale, è l'assoluta rarefazione dell'esistente: che svanisce, in un nulla che si svela. Per me non è così.

Il nulla rivelante, o altro che vi si equivalga fu un oggetto di parole e pensieri fra un tavolino di bar e le foreste dello Schwartzwald: giungemmo ad Heidelberg, e sotto al ponte correvano i barconi, lenti, e Mario si fotografava, coi capelli al vento, dopo avere annusato le sorgenti del Danubio. Avemmo paura dentro l'auto nella galleria che se non sbaglio fuoriesce ad Airolo.  Dai ruderi del castello, nel tramonto, discendemmo a passi lenti, sottobraccio, come dal colle di Urbino; non c'erano aquiloni; non ce n'era bisogno allora!

Passavano alcune biciclette, là: era un mattino splendido ed avevamo mangiato, come normale, con qualche formaggino, uova sode e birra [forse quell'altra si beava di Apfelsaft]. Un attimo fermo, dopo quel fluire continuo di mele fiorite, e dentro me nasceva il ricordo delle gite in bici nel mio Trentino. Incontrammo pure dei fantasmi nella notte, tornando verso il  campeggio,  quello dell'orso con la cerniera.
Herrenwis, in alto, radura nel centro della Foresta Nera: primi di giugno, mi pare.
Piantata la tenda nel pomeriggio tardo, con qualche perplessa riflessione sulla assoluta presenza di roulottes e sulla totale assenza di tende, andammo, fra curve e abeti, e ombre stagliate nel cielo, verso Baden Baden. Alcune luci  ci accolsero, verso un centro approssimativo. Il resto poi è limitato ad alcune persone di provinciale eleganza, nella zona del casinò, una ragazza con un impermeabile tre quarti (mica pioveva) e il cappello da uomo, a tese larghe. Tutto molto inusuale. Poi il ritorno e il timore, confermato, di un gelo insopportabile.

Atteggiandosi ad un pensiero inerte, sul davanzale, scostava le foglie dei gerani, con entrambe le mani:  in mente il suo orso, i colori del cielo di marzo, la sabbia e i segreti che non vanno svelati mai, a nessuno. Sulla ciniglia verde chiaro della coperta un pensiero, un ricordo; il calore di un campo di grano di giugno mente corri nel vento.

Karl Marx Allee

E sulla Karl Marx Allee ci cagano i piccioni !

L'uomo con la bombetta era già stanco ; prese giusto il suo bastone e s'avviò. Lungo il marciapiede sentiva qualche frammento di commento di chi, in quell'autunno si accostava a qualche bandiera.
Intorno al cestino dei biscotti si scaldava lo sguardo della gente, mentre un fuoco tenero rendeva la sera meno umida, anche nei pressi della stazione invernale. Dall'angolo della chiesa una ragazza inglese , disegnava il suo quadro a pastelli, e le castagne scrocchiavano in una pentolona a buchi per le caldarroste, con tanto di nome sul bordo: Petronilla, mentre la fila longobarda dei miei pensieri serpeggiava lenta, austera.

La luna e le nuvole

Prologo

...La raccolta dei segni...


Molto più tardi avrebbe colto il senso di quegli istanti, quando, girato verso il compagno che stava dall'altra parte della strada, sbatté la fronte contro il grande platano.

 

Totoc … ttoc …tac…tatac…ttoc… ttacc

Sordi e regolari, seguiti dall'eco che si rincorreva fra i quattro angoli delle palazzine, risuonavano i colpi d'ascia che l'attendente del maggiore Andaloro vibrava sulla catasta di legna, ogni domenica mattina, all'apparir del sole.
Odore di fuoco di legna, sponde del letto ghiacciate. Un freddo intenso mescolava  i colori e attraverso la tenda si disegnava la luce e al di là della luce s'intuiva l'azzurro del cielo.
Nella stanza vicina, oltre il primo corridoio, i due letti affiancati erano già rifatti e la luce rimbalzava sul ripiano scuro e lucido della scrivania. Nel cassettone dell'armadio già si annidavano i ricordi:  la mascherina marrone di carnevale, con quell'intenso odore di cartapesta che risvegliava istantaneamente il roteare dei brandi di cartone, le stelle filanti, le piume da indiano; soprattutto quei punti colorati che disegnavano i coriandoli sui quaderni di scuola e  le corse pazze nella prima breve stagione che il cielo concedeva ai ragazzi, dopo il lungo inverno.
Accanto un piccolo presepe di cartone, che si apriva estraendo la parte frontale - come certe cartoline d'oggi - e dove una pellicola rossa fingeva il colore del fuoco nella grotta di Natale.
A fianco, un sacchetto di palline in terracotta, di vari colori e ancora più in là le biglie di vetro, a strisce interne colorate, del fratello più grande. Da non toccare.
Le strisce bianche e blu del pigiama che scendevano abbondanti a ripiegarsi goffamente sulle ciabattine di lana si mettevano in moto così, per giungere fino alla cucina, dopo aver dato un fuggevole sguardo al quadro appeso nel corridoio che raffigurava una casetta di legno con dietro tre alberi e i monti coperti di neve. Ma la neve ormai stava sciogliendo, e le prime chiazze di terra, scura e bagnata, affioravano qua e là. Davanti alla casa, un tratto di terra melmosa lasciava passare, senza affondare subito nella neve. Fra qualche settimana si potrà tirare fuori la bicicletta, ma per ora i goccioloni che scendono pesanti dalle grondaie sconsigliano ogni sortita.
Nella cucina, sulla mensola entrando a sinistra, la radio parlava e cantava, e dai doppi vetri  della finestra grande si poteva vedere - dietro il campanile - la cascata ghiacciata,  e dietro ancora il monte, dove sarebbe arrivato il Giro d'Italia.

Il pianto di Khalef

 

Prologo

Apparvero Quattro Lancieri, Tre luci squarciarono il cielo. Vedemmo per la prima volta le nostre ombre.

E quelle degli alberi, delle torri, delle lunghe scuri alzate in segno di guerra.

La Grande Pianura fu scossa da un grido lontano.

Al centro del campo i guerrieri battevano i piedi al ritmo dei tamburi, innalzando l'urlo di guerra. Il canto dei soldati giungeva fino alla Vasta Radura, alla Gola del Serpente, e in breve giunse fino all'Arco di Pietra.  Da lì, con forza crescente, veniva ripreso dagli arcieri piumati, che dalla Selva dei Sette Squilli si facevano udire fino al Sommo Dirupo, dove il frastuono, in un singhiozzo, veniva annichilito.

Al di là, nella Terra dei Laghi ancora umida per la tempesta, tacquero i falchi levati, e si sentirono stridere le marzaiole in uno sbatter d'ali.

La notte non terminò per molti giorni, e presso i fuochi consumammo esausti il nostro tempo, in attesa che svanissero quel peso e quell'ignota presenza; presto cademmo in un sonno profondo.

Al risveglio, la luce del giorno squassava le tempie, uscendo esplosiva dal Valico delle Salamandre. Radente ci sorvolò un airone, incollato al suolo da una controfigura che ne seguiva movenze e sembiante: era il segno della condanna, che reificava il Monito dell'Incollatura, venuto dalle Quattro Colline, dal regno di Okunkun. Le Dieci Città erano insorte, ma inchiodate alla terra con pesanti catene dovettero piangere per Anni Trecento…

 

Khalef scrutava quel tachigramma, interrogando freneticamente il Pantoglosso, che aveva avuto in dotazione al momento della partenza. E andava considerando quella sequenza di simboli, ma senza capire granché.

Fu Musmetchi che ebbe un sussulto, volse lo sguardo al di là dello stagno, fra gli esili profili delle canne, e respirò profondamente; quindi, accostate le labbra. emise un lungo sibilo: cominciava a comprendere il nesso: intuiva che in quel protofemio si nascondeva l'archeodizione.